Riflessione domenicale 19 aprile 2020

Quando l’amore umano diventa forte tra due persone, esso le trae fuori da sé perché ciascuno possa andare incontro all’altro.

Similmente è stato anche per Dio: Egli si è svuotato a motivo del suo amore “folle” per gli uomini. Di più ancora: Cristo non ha solamente distribuito doni agli uomini tenendosi a debita distanza, ma ha offerto tutto sé stesso e ci ha fatti diventare tempio del Dio vivente (1Cor 3,16). 

Sono due le peculiarità dell’amore per eccellenza, quello che definiremmo oblativo, cioè che offre tutto se stesso:

in primo luogo chi ama fa del bene all’amato più che può, dando vita a una creatività senza precedenti e senza far mancare all’altro la certezza della propria presenza;

in secondo luogo chi ama sceglie di vivere la fedeltà a questo amore quand’anche esso chieda di soffrire e di patire per l’amato. Questa seconda caratteristica prova la verità e la fondatezza dell’amore, è indice di una alta misura secondo la quale chi ama si è messo in gioco. È una sorta di prova d’amore. 

Noi vediamo tutto questo nel vangelo di oggi: Gesù appare e si offre nuovamente come presenza certa a prescindere dalla fedeltà dei suoi interlocutori. Si sta rivolgendo a chi è fuggito di fronte al suo dolore e che ora se ne sta rinchiuso per paura di soffrire (tutto il contrario rispetto alle caratteristiche dell’amore);

ai discepoli mostra più volte i segni della passione, le sue piaghe: sono la testimonianza del suo annientamento, la prova del suo amore per noi e la scelta di rimanere fedele a noi, anche nel momento di sofferenza e di abbandono.

Un autore spirituale del XIV secolo fa notare un aspetto per me molto bello: egli sottolinea che Gesù porta ancora le ferite nella carne anche dopo la risurrezione, ne porta le cicatrici e così torna al Padre e appare ai suoi discepoli. Egli possiede un corpo risorto, quindi senza dimensione spazio-temporale, senza gravità, peso, spessore… “ma non si è privato delle sue piaghe, non ha eliminato le cicatrici, al contrario, per amore degli uomini ha voluto amarle; perché per loro mezzo ha trovato colui che si era smarrito”, con quelle piaghe ci ha conquistati tutti; noi, che siamo l’oggetto del suo amore. 

È sconvolgente pensare che il nostro Redentore non si vergogna di noi al punto che siede nella sua gloria ricoperto delle cicatrici che ha ereditato dal male che noi gli abbiamo inflitto e che è figlio delle nostre debolezze e del nostro orgoglio che ci porterebbe a non fidarci di lui. 

Credo che questo ci testimoni l’”eccellenza della nostra dignità”. Se riusciamo ad assaporare quanto valiamo agli occhi del nostro Padre e Creatore, penso che più difficilmente ci lasceremo andare a scelte che ci distruggono, a prassi che ci contrappongono, ad abitudini che ci imbruttiscono, a umori che ci deprimono. 

Tommaso ci mostra che la meraviglia scaturita tra la fedeltà di Dio, testimoniata dalle sue cicatrici e la sfiducia disillusa che abitava nel suo cuore ha fatto sorgere una fede che lo ha aperto alla beatitudine, cioè alla felicità piena.

Questo per noi significa che siamo chiamati a permettere che il Padre faccia risorgere, insieme a Cristo suo Figlio, anche il nostro cuore, inondandolo di amore e di speranza.

Risorgere per tornare a passeggiare? Per distrarsi un po’ e stare meglio?

Risorgere per imparare ad amare, che credo significhi avere come obiettivo dei nostri giorni non solo il guadagno e l’interesse personale, ma che tutti quanti possiamo sentirci figli di Dio; alleati con Lui per allearci tra di noi, e insieme camminare per la comunione e la beatitudine, per un Bene che ci affratella e che, più che farci scontrare, ci fai incontrare il volto degli altri, riflesso del volto di Cristo.  

dM