Riflessione domenicale 22 marzo 2020

CI È RIVOLTO UNO SGUARDO

Ci sentiamo sempre più immersi in una situazione mortificante. Andare per celebrare in questi giorni negli obitori di Brescia ciò che rimane del rito delle esequie è straziante sia per l’impossibilità per i familiari di essere presenti sia per il numero di defunti che affolla le camere ardenti, con tutto ciò che ne consegue. Si contano i decessi, sì; ma non ci dimentichiamo che sono persone. Anche a livello mondiale ora l’allerta è salita e la preoccupazione è notevole. In questa situazione il vangelo rimane la Parola di Vita che contrappunta questa situazione che ci coinvolge. 

Attorno all’apodittico “state a casa” di questi giorni sono fioriti una serie di hashtag in ogni dove a ricordarci di rimanere nella propria dimora: non si può far altro che incoraggiare e sottoscrivere. Tuttavia mi domandavo: che cosa faranno le persone della mia comunità a casa tutto il giorno? Come riusciranno ad impiegare al meglio il proprio tempo? 

In questo tempo quaresimale, stando in casa, ci è concesso di ritornare a casa.

Penso alle case che vivono in armonia, ma penso anche alle case che solitamente sono disabitate durante il giorno per il lavoro e ai figli che cercano i padri e le madri. Penso alle case che vivono la fatica degli sposi a vivere il loro matrimonio; alle case che vedono la sofferenza della malattia, fisica o psichica, giovane o anziana; penso alle case che vivono la violenza, la solitudine. Penso alle case che vedono la faticosa crescita dei ragazzi e l’esercizio dei genitori a far prendere loro il volo. Penso alle case dove si vive la fede e penso alle case dove la fede non c’è. Penso all’umanità nella sua realtà un po’ malata, un po’ cieca,  ben rappresentata dal cieco nato del vangelo odierno. 

Eppure non v’è situazione che sia d’ostacolo a che ciascuno possa ritornare a casa: similmente a quel figlio che, considerando morto il padre, aveva chiesto la propria parte di eredità e se n’era andato. Nessun ricongiungimento familiare, quindi, ma il ritornare a visitare la propria coscienza, a scoprirci abitati dallo Spirito Santo, amati e inviati a portare nel mondo il vangelo, anzitutto a noi stessi. 

E se questo fosse il tempo utile per ritornare a vivere il vangelo in famiglia, chiesa domestica? E se in questo tempo scoprissimo che è ora che ciascuno di noi metta da parte la vergogna di vivere in vangelo e di parlare di Gesù ai suoi più vicini? Se fosse il momento in cui la Chiesa sono io e non i preti o gli altri? Se fosse il momento in cui mi sento inviato a conoscere e vivere io per primo il vangelo?

Io potrei disperarmi insieme ai ragazzi con cui quest’estate saremmo dovuti andare in Africa, ma forse colgo che la missione è qui.

Parafrasando il Beato Giuseppe Tovini, potremmo dire che Le nostre Indie sono le nostre famiglie, le nostre case, le nostre coscienze, i nostri cuori. 

Ritornare a casa significa fare pace con tutto ciò che avevamo nascosto o messo da parte, volti inclusi, a partire da quello di Dio. Io sono il missionario del mio cuore e della mia casa, chiamato a riconoscere il mio essere cieco. Mi sarà possibile fare questo se avrò il coraggio di non condannarmi e di accettare con benevolenza tutto me stesso e tutto ciò che sto vivendo. Nessuno di noi è realmente incamminato verso la maturità cristiana se non quando cerca di fare pace con le cose assurde della propria vita. 

Se faccio ritorno a casa, sono nel contesto in cui posso sentire su di me lo sguardo di Dio. Se anche io avessi relegato Dio nell’angolo dell’insignificanza, mi accorgo con meraviglia che Dio non ha mai smesso di guardarmi con amore e comprensione, senza condannarmi. Mi accorgo con stupore che casa mia è anche casa di Dio. 

Nella casa della mia coscienza, dove dimora lo Spirito donatomi dal Padre, mi sento visto e guardato, mai trascurato. Lo sguardo di Dio non è mai statico, ma sempre amante, al punto che al vedere quel cieco, infermo dalla nascita, di lui si prende cura. 

Trovo singolare notare che la guarigione del cieco del vangelo si verifica con l’unione di due elementi che segnano l’incontro di due mondi: la terra, quello umano, e la saliva, quello di Dio. 

C’è una Luce amica da accogliere quando accettiamo ciò che sembra assurdo nella nostra vita: essa ci fa comprendere che invece è una chiamata. 

Ciò che ci sembra inutile, fuori luogo ci serve per cominciare ad amare.

Tutto quanto ci risulta non chiaro, difficile, duro, non deve solamente essere il motivo della ricerca delle colpe o delle responsabilità -talvolta è la strada più ingannevole-, ma essere salutato come ciò che ci rende disponibili a incontrare il signore e per essere suoi strumenti. 

«Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio” (Gv 9,3) dice Gesù quando i discepoli chiedono di chi sia la colpa della cecità. 

Ci vorrà certamente tempo per comprendere questo periodo e ciò a cui ci chiama il Signore, ma manteniamoci aperti: Chi crede di vedere, chi non accetta altre letture diviene cieco; chi ritorna a casa e si fida di Dio “non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (Gv 8,12).

dM