Riflessione domenicale 26 aprile 2020

“Solo tu sei straniero!” dicono i discepoli diretti verso Emmaus a Gesù nel racconto evangelico di oggi. Dicono una grande verità attestando la sua estraneità riguardo a quei discorsi tristi e sfiduciati e a quel modo di vedere la storia. Pur essendo il protagonista dei fatti accaduti a Gerusalemme, egli si comporta come un estraneo, straniero, diverso, che sta a distanza dal tipo di racconto che Cleopa e il suo compagno di viaggio stanno tessendo.  

Nella seconda lettura tratta dalla Prima Lettera di Pietro si trova una strana esortazione che pare collegarvisi: “Comportatevi con timore di Dio nel tempo in cui vivete quaggiù come stranieri (1Pt1,17). 

I segni dei tempi stanno chiamando ciascuno a operare una riconversione negli ambiti di vita e di lavoro per le circostanze che ben conosciamo; non ne è escluso il nostro cuore, dimora di Dio e sede delle decisioni più incisive. Il Signore attraverso la sua Parola propone a noi di essere simili a Gesù: camminare nelle vicende della storia da stranieri. 

In altre parole significa comportarsi quaggiù sulla terra avendo sempre quale bene da raggiungere la comunione e la felicità con Dio Padre. Questo ci rende stranieri quaggiù perché la nostra patria è nel cielo, in Dio. Parole inaccessibili per chi ha gli occhi e le orecchie incatenati nei discorsi di questo mondo, proprio come i discepoli di Emmaus: il Signore era lì, ma loro erano assorbiti da altro. 

L’estraneità richiestaci dalla Scrittura in questa domenica non è astensione da questo mondo, disimpegno o disaffezione; non è neppure bizzarria, stravaganza o eccentricità. Tutt’altro. Significa vivere la vita totalmente, ma immettendovi qualche cosa di diverso rispetto alla logica fagocitante che ci stordisce; significa contagiare la società della bontà solida e sapiente del vangelo; significa accogliere e concepire la vita come un’opera che contiene l’”imprinting del dono” impressole dal suo Autore; significa lasciarsi andare in quell’ispirazione -grazia di Dio- che ci infonde la chiara certezza che siamo fatti per Dio. 

Con Gesù, il Salvatore, ritroviamo i nostri passi e viviamo nella gioia; allontanandoci da lui sperimentiamo l’affanno e la tristezza. 

Vivi in questo mondo, comportandoti da straniero quaggiù, perché la tua patria è il Cielo, mantenendoti in amicizia con Dio.

La catechesi di Emmaus ci rende esplicito il nostro bisogno di frequentare e nutrirci alla mensa del pane che è Cristo, dell’Eucaristia. 

1) Questo Pane è ciò che veramente fortifica il cuore dell’uomo e sradica dalla nostra anima l’indolenza. Stando in questi mesi a “digiuno forzato” di Eucaristia ci giova ricordare che, come “nessuno fugge il medico col pretesto di essere malato”, così è bene che non si innesti nella nostra mente il ragionamento per cui siccome non sono degno di Dio, allora me ne sto alla larga. Cibarci del Corpo di Cristo e fare in modo che entri in noi vale tanto quanto valse per gli ebrei in Egitto cospargere di sangue gli stipiti e l’architrave delle porte: la salvezza dalla morte e da quell’infame e demoniaco sospetto che spingerebbe a credere che la vita sia una bella storia con un finale triste.

2) Oltre al custodire una memoria lieta e fedele nei confronti di Dio e delle meraviglie che compie per noi, l’Eucaristia ci dà la forza per custodire una volontà buona.                                                                                                                              Infatti l’unica cosa che Dio ci chiede nella nostra vita è di mantenere una volontà che desideri il bene. È importante rispondere alla proposta di Dio con la volontà, poiché l’amore non è un vago sentimento, ma è una potenza della volontà. Solo se io voglio e decido di farlo, amo fino in fondo un’altra persona; solo se espressamente voglio rispondere a Dio si attiva quella connessione che permette a Lui di inondarmi di bene. Quando Dio chiede a noi i frutti della nostra volontà, significa che nella nostra volontà egli ha seminato in noi ogni predisposizione al bene. Ecco che i sacramenti, la preghiera, la Parola di Dio a null’altro tendono se non a mantenere “buona” la nostra volontà. Buona non significa che non conosce l’infedeltà o il fallimento, ma che non permette a nessuno sbandamento o scivolone di alterare l’oggetto del suo desiderio: Dio e il bene per i fratelli.

In questo consiste la nostra diversità e il nostro comportarci da stranieri in questo mondo: desiderare in tutto la vicinanza di Dio cibandoci del suo Pane, in modo da custodire in noi la sua memoria e una volontà buona che sempre Gli dia modo di incarnarsi attraverso i nostri gesti e le nostre parole.

In altre parole, San Paolo direbbe che noi siamo “concittadini dei santi e familiari di Dio” (Ef 2,19). Chi abita in un luogo pieno di bellezza è inevitabile che la porti ovunque vada; se pensavamo di doverci rendere attraenti esibendo le personali peculiarità, la Parola di Dio ci ricorda che siamo i portatori della Bellezza più irresistibile e duratura. Anzi, eterna.

dM